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cappello alpino
Nel mio armadio c'è un Cappello
sdrucito con un numero sul davanti protetto da un'aquila, con una penna
d'aquila leggermente rovinata, infilata in un piccolo fiocchetto verde. E'
il mio Cappello Alpino. E' un Cappello che ha una lunga vita, è stato
testimonio di una storia di naja militare un po' tormentata. E' un
Cappello che conservo gelosamente come soltanto può un soldato fiero
della tradizione del Corpo degli Alpini. Quando lo calco in testa mi sento
orgoglioso della mia totale italianità. Mi ha accompagnato nel periodo del
servizio militare che ho accettato senza mai lamentarmi. Un Cappello
impreziosito da una penna che mi dava e mi da tanta sicurezza, tanta
tranquillità, con la certezza che mi sarà sempre un compagno fedele. Caro
Cappello, sono sempre stato e sono orgoglioso di portarti.
Il cappello alpino, simbolo e vanto di questi gloriosi soldati delle
montagne, ha visto la luce nel lontano 1910 e precisamente il 20 maggio.
E’ un copricapo che racchiude in se tradizione e ricordi indelebili e
forse anche per questo è ancora in uso tuttora con piccole modifiche.
Negli oltre ottant’anni di vita i suoi cambiamenti sono stati minimi.
Distribuito, inizialmente, soltanto a sottufficiali e militari di truppa,
il cappello alpino era in feltro di pelo di coniglio di colore grigio
verde, con falda posteriore ripiegata all’insù e falda anteriore
trapuntata con cuciture a macchina concentriche con filo grigio verde.
Internamente il cappello alpino era foderato con tessuto nero e presentava
una fascia di pelle del medesimo colore che correva tutto lungo la testa.
La calotta era ovale con due fori rivettati ai lati e con una soprafascia
di cuoio anch’esso grigio verde dell’altezza di due centimetri attorno
alla base. Tutto intorno alla soprafascia correva un cordoncino di lana
grigio verde abolito poi nel 1912. Sulla sinistra della striscia di cuoio
era cucita una taschetta dello stesso materiale che serviva per infilarvi
la nappina di lana, simbolo dei vari battaglioni. Bianca era per il 1°
battaglione, rosso scarlatto per il 2°, verde per il 3°, blu per il 4°,
gialla i sottufficiali e la truppa degli Stati Maggiori, dei depositi di
reggimento e della Guardia di Finanza.
Nella nappina, che presentava alla sommità un foro, era infilata la penna,
simbolo degli alpini. Essa era di lunghezza variabile tra i 18 ed i 20 cm
e fino al 1913 fu tinta di grigio. Successivamente conservò il suo colore
naturale. Doveva provenire dall’ala destra di corvi, pavoni o tacchini.
Per l’artiglieria da montagna era previsto lo stesso copricapo con
eccezione del fregio e della nappina che era sostituita da una coccarda
tricolore della dimensione di 4-5 cm (la stessa utilizzata su colbacchi e
kepì). Nel 1912 il cappello alpino fu dotato di un sottogola di "nastro di
bavella" di colore grigio con fibbia metallica. Questo accessorio fu
presto abolito. Sempre in questa data venne abolita la coccarda tricolore
al posto della nappina dell’artiglieria da montagna e fu introdotta la
nappina rossa con al centro un tondo nero nel quale erano scritti in filo
giallo i numeri della batteria.
Stessa cosa dicasi per i reparti someggiati di artiglieria da campagna. Il
medesimo colore di nappina con al suo interno le lettere serviva per
indicare il reparto o il comando del militare (CR = Comando di Reggimento,
CG = Comando di Gruppo, RMV = Reparto Munizioni e Viveri, D = Deposito).
Dopo la prima Guerra Mondiale non vi furono sostanziali cambiamenti
nell’aspetto del cappello alpino da truppa a parte, naturalmente, i fregi.
Soltanto dopo il 1934, anno della riforma Baistrocchi si possono notare
alcuni importanti cambiamenti. Primo fra tutti la sostituzione della
nappina rossa per l’artiglieria da montagna e l’introduzione per la stessa
della nappina verde con tondo nero e numero della batteria in giallo.
Sempre per ciò che concerne le nappine fanno la loro comparsa i colori
cremisi e nero che contraddistinguevano rispettivamente i servizi
divisionali ed i reparti chimici. Sempre la nappina cremisi ma con al
centro il solito tondo nero ed i numeri indicavano l’appartenenza del
soldato ad un battaglione del genio alpino.
Sapete cos'è un cappello alpino?
È il mio sudore che l' ha bagnato
e le lacrime che gli occhi piangevano,
e tu dicevi: "Nebbia schifa!".
Polvere di strade,
soli di estati,
pioggia e fango di terre balorde,
gli hanno dato il colore.
Neve e vento e freddo di notti infinite,
pesi di zaini e sacchi,
colpi d armi e impronte di sassi,
gli hanno dato la forma.
Un cappello così hanno messo
sulle croci dei morti,
sepolti nella terra scura,
lo hanno baciato i moribondi
come baciavano la mamma.
L' han tenuto come una bandiera.
Lo hanno portato sempre.
Insegna nel combattimento e guanciale per le notti.
Vangelo per i giuramenti e coppa per la sete.
Amore per il cuore e canzone di dolore.
Per un alpino il suo CAPPELLO
È TUTTO.
Oggi se ne vedono in giro tanti, a migliaia, e c'è chi pensa che il
cappello con la penna sia un copricapo qualunque. Non è così. È vero che
lo si può comperare sulle bancarelle e, con un po' di euro, regalare al
bambino che vuole andare fiero di questo cappelluccio-giocattolo, pieno di
fronzoli e con una penna di tacchino lunga da qui a lì.
«Nasce» sulla testa dell'alpino. E non ce n'è uno uguale all'altro.
Guardatevi in giro e lo constaterete. Quando nel magazzino della caserma
la recluta lo riceve in dotazione, ha una forma e una dimensione standard.
Come previsto dai regolamenti militari. Ma, a differenza di altri
copricapi dei corpi dell'esercito (vedi quello dei bersaglieri: bellissimo
ma immodificabile), il cappello degli alpini cambia. Si trasforma,
presenta un'infinità di segni e diventa il «mio», il «tuo» cappello.
Date un'occhiata ai cappelli dei più anziani, di quelli che lo hanno
portato in guerra. Sono stinti. Hanno preso pioggia e neve, sono serviti
per raccogliere l'acqua da una pozza, hanno sostituito la gavetta in un
rancio improvvisato per metterci dentro la pasta o un po' di patate, li
hanno usati come abbeveratorio per il mulo stanco. Un tempo esistevano
delle distinzioni tra cappello di «'ècio» e cappello di «bocia» (una
categoria ormai scomparsa). C'erano delle regole (non sempre ferree) non
solo per quanto riguarda la lunghezza della penna ma anche la sua
inclinazione. L'alpino verso la fine del servizio militare, che si era
fatto campo estivo e campo invernale, che aveva nei «vibram» chilometri e
chilometri di marcia in montagna con zaino e fucile, poteva inclinare la
penna: lei e il suo proprietario erano «stanchi». Questo valeva nei giorni
di licenza o dopo, al congedo, ma mai in caserma; l'ufficiale o anche il
semplice sergente potevano refilare qualche giorno di consegna (ossia:
niente libera uscita e pulizie in cortile) di fronte a una penna non
conforme.
Il «bocia», e men che meno la recluta ultima arrivata, non poteva
permettersi un sia pur minimo ritocco alla penna. Doveva essere corta,
poco più che un mozzicone: sulla sua lunghezza vegliavano, con
accuratissimi controlli, gli «'eci». E se qualcosa sfuggiva, sicuramente
non agli occhiuti ufficiali di picchetto che passavano in rassegna divise
e cappelli al momento dell'uscita. Penna nera e di corvo, assolutamente.
E i cappelli? Per i «bocia» la regola era ferrea. Il cappello doveva
restare un «tubo». Rigido, con la cupoletta e la larga tesa a grondaia
come l'avevano ricevuto in fureria. L'anziano invece poteva permettersi di
«tirarlo». Si trattava di un'operazione che richiedeva un po' di abilità
(gli anziani erano espertissimi), dovendo sottoporre il cappello a una
specie di messa in piega.
Come prescritto, l'ala sul retro doveva essere rialzata e aderire il più
possibile al cappello verso e proprio. La tesa sul davanti doveva perdere
la forma di gronda e volgersi verso il basso con uno spiovente sul quale
la pioggia doveva scorrere senza fermarsi. Per arrivare a questo risultato
occorrevano bagnature, stiracchiamenti, sapienti colpi di spazzola, da
ripetere tutti i giorni. Il risultato migliore era garantito dal ricorso a
spazzolate con una miscela di acqua zuccherata (ma non troppo). In questo
modo il panno si sarebbe ristretto al meglio e non avrebbe mai più perso
la forma.
C'é un altro tipo di ritocco, molto più drastico ma che se scoperto,
poteva costare il sequestro del copricapo, la punizione del proprietario e
l'addebito in fureria. Si tratta di ritagliare il cappello lungo tutto il
bordo della tesa, così da ridurla di un dito o più. In questo modo si
poteva «tirare» il panno fin che si voleva. In questo modo il cappello era
decisamente fuori ordinanza.
Per evitare conseguenze i più scaltri si dotavano di due cappelli: uno
entro i limiti della norma e l'altro da sfoggiare in licenza. In questo
modo, indossando il primo era possibile superare l'ostacolo dell'ufficiale
di picchetto, mentre l'altro restava celato nella sacca o nella valigia
per essere esibito una volta a casa.
Vedete un po' cosa vuol dire il cappello alpino. Che agli incontri tra
penne nere, ai raduni e alle adunate è simbolo e vetrina. Da anni l'Ana
chiede che questa vetrina, dove dovrebbe comparire solo il distintivo del
reparto d'appartenenza, o poco più, non diventi un banco da rigattiere o
un medagliere da generale sudamericano.
Non tutti rispettano questo invito. Sono probabilmente quelli che di naia
ne hanno fatta ben poca, oppure che ignorano quale sia l'autentico spirito
dell'alpino e la tradizione che rappresenta. Ma all'adunata si finisce col
perdonare un po' tutto. L'importante è andare in giro e sfilare con quell'unico,
inimitabile, bellissimo cappello.
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